Un popolo impegnato nel rinnovare l’anima della città
10:27 AM
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Un popolo impegnato nel rinnovare l’anima della città
La visita di papa Francesco diventa un dono prezioso, dentro questo processo di ricerca e di ricostruzione dell’anima della città. Ci dà infatti energie per superare la paura che genera atteggiamenti irrigiditi e forme di chiusura. Chiede al popolo cristiano di essere sentinella e antidoto, perché queste paure non prendano corpo e non si agglutinino in movimenti sociali e culturali; chiede di trasformare ciò che viviamo come una semplice emergenza (la presenza di tanti profughi, l’apparire di nuove forme di povertà e di emarginazione) in uno strumento per una rieducazione del nostro cuore e delle nostre menti.
Avere il pensiero di Cristo, sviluppare una mentalità cattolica, letteralmente aperta al tutto, abituarsi a vivere la nostra identità cristiana dentro una società plurale: la visita del Papa diventa l’occasione e lo stimolo per pensarsi a Milano come popolo di Dio tra i tanti popoli del mondo, come popolo per tutti i popoli, con il compito di accendere processi di riconciliazione e di riunificazione.
“Molti tentano di fuggire dagli altri verso un comodo privato, o verso il circolo ristretto dei più intimi, e rinunciano al realismo della dimensione sociale del Vangelo. (…) Il Vangelo ci invita sempre a correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro, con la sua presenza fisica che interpella, col suo dolore e le sue richieste, con la sua gioia contagiosa in un costante corpo a corpo. L’autentica fede nel Figlio di Dio fatto carne è inseparabile dal dono di sé, dall’appartenenza alla comunità, dal servizio, dalla riconciliazione con la carne degli altri” (EG 88).
Una simile attitudine non si sviluppa a tavolino. Come in ogni processo storico è necessario partire dal soggetto, dalle persone e dalla loro capacità di testimonianza. Occorre recuperare il “per chi” facciamo questo: un atteggiamento libero che, non avendo nulla da difendere se non la testimonianza di Cristo, è in grado di rimettere in discussione la forma della testimonianza in rapporto ai segni dei tempi e alle indicazioni di chi guida la Chiesa. Il primo fattore di novità, infatti, è il porsi del soggetto stesso. Senza un soggetto nuovo, personale e sociale non supereremo la grave crisi del desiderio che ci rende oggi incapaci di speranza, di slanci ideali, di passioni, di rischio, di avventura. Solo così i tanti esempi e le tante risposte positive che già stiamo elaborando diverranno quella testimonianza che come papa Francesco ci chiede è capace di sconvolgere il mondo con la gioia del Vangelo.
“Così prende forma la più grande minaccia, che «è il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale tutto apparentemente procede nella normalità, mentre in realtà la fede si va logorando e degenerando nella meschinità». Si sviluppa la psicologia della tomba, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo. Delusi dalla realtà, dalla Chiesa o da se stessi, vivono la costante tentazione di attaccarsi a una tristezza dolciastra, senza speranza, che si impadronisce del cuore come «il più prezioso degli elisir del demonio». Chiamati a illuminare e a comunicare vita, alla fine si lasciano affascinare da cose che generano solamente oscurità e stanchezza interiore, e che debilitano il dinamismo apostolico. Per tutto ciò mi permetto di insistere: non lasciamoci rubare la gioia dell’evangelizzazione!” (EG 83).
La cattolicità intrinseca alla comunione cristiana, se fedele alla sua origine, è speranza per il mondo in quanto vince l’individualismo, la frammentazione e la divisione dilagante a tutti i livelli. La nostra forza non è il proselitismo ma l’attrattiva della testimonianza dell’amore di Cristo.
“Se pensiamo che le cose non cambieranno, ricordiamo che Gesù Cristo ha trionfato sul peccato e sulla morte ed è ricolmo di potenza. Gesù Cristo vive veramente. Altrimenti, «se Cristo non è risorto, vuota è la nostra predicazione» (1 Cor 15,14). Il Vangelo ci racconta che quando i primi discepoli partirono per predicare, «il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola» (Mc 16,20). Questo accade anche oggi. Siamo invitati a scoprirlo, a viverlo. Cristo risorto e glorioso è la sorgente profonda della nostra speranza, e non ci mancherà il suo aiuto per compiere la missione che Egli ci affida” (EG 275).
Se la paura dilagante ci insegna che la migliore strategia è una violenza più efficace (l’homo homini lupus di Thomas Hobbes), il popolo di Dio vive dentro i cambiamenti del mondo con lo stile di Gesù Cristo: ai cristiani oggi è chiesto di vivere l’Ecce homo di Gesù, che non recrimina, ma accoglie e, pagando di persona, salva, come ci ha ricordato papa Francesco al Convegno Ecclesiale di Firenze.
Ripensare la grammatica dell’umano. Questo imperativo, un dovere che si impone da sé, non per calcoli politici o in seguito a gruppi di pressione, ma grazie all’apparire alla nostra coscienza del bene che tutti vogliamo per la nostra società, per gli uomini, per le nuove generazioni, è il tratto che ci consente di rifare nostro lo stile di Gesù. Il popolo di Dio che papa Francesco incontrerà è un popolo che vuole restare fedele al movimento di incarnazione che Dio ha realizzato donandoci suo Figlio. Alla testimonianza cristiana spetta di mostrare come il Vangelo entra pazientemente nel tempo e nello spazio attraversando tutta la condizione umana fin nelle sue periferie più remote, senza paura di mischiarsi con la zizzania, con quanto è segnato dal male. Il mondo che Gesù chiama “il campo” chiede di essere pensato come il luogo in cui ogni uomo e ogni donna possono rispondere al loro desiderio di felicità, ci ricorda il nostro arcivescovo.
Avere il pensiero di Cristo, sviluppare una mentalità cattolica, letteralmente aperta al tutto, abituarsi a vivere la nostra identità cristiana dentro una società plurale: la visita del Papa diventa l’occasione e lo stimolo per pensarsi a Milano come popolo di Dio tra i tanti popoli del mondo, come popolo per tutti i popoli, con il compito di accendere processi di riconciliazione e di riunificazione.
“Molti tentano di fuggire dagli altri verso un comodo privato, o verso il circolo ristretto dei più intimi, e rinunciano al realismo della dimensione sociale del Vangelo. (…) Il Vangelo ci invita sempre a correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro, con la sua presenza fisica che interpella, col suo dolore e le sue richieste, con la sua gioia contagiosa in un costante corpo a corpo. L’autentica fede nel Figlio di Dio fatto carne è inseparabile dal dono di sé, dall’appartenenza alla comunità, dal servizio, dalla riconciliazione con la carne degli altri” (EG 88).
Una simile attitudine non si sviluppa a tavolino. Come in ogni processo storico è necessario partire dal soggetto, dalle persone e dalla loro capacità di testimonianza. Occorre recuperare il “per chi” facciamo questo: un atteggiamento libero che, non avendo nulla da difendere se non la testimonianza di Cristo, è in grado di rimettere in discussione la forma della testimonianza in rapporto ai segni dei tempi e alle indicazioni di chi guida la Chiesa. Il primo fattore di novità, infatti, è il porsi del soggetto stesso. Senza un soggetto nuovo, personale e sociale non supereremo la grave crisi del desiderio che ci rende oggi incapaci di speranza, di slanci ideali, di passioni, di rischio, di avventura. Solo così i tanti esempi e le tante risposte positive che già stiamo elaborando diverranno quella testimonianza che come papa Francesco ci chiede è capace di sconvolgere il mondo con la gioia del Vangelo.
“Così prende forma la più grande minaccia, che «è il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale tutto apparentemente procede nella normalità, mentre in realtà la fede si va logorando e degenerando nella meschinità». Si sviluppa la psicologia della tomba, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo. Delusi dalla realtà, dalla Chiesa o da se stessi, vivono la costante tentazione di attaccarsi a una tristezza dolciastra, senza speranza, che si impadronisce del cuore come «il più prezioso degli elisir del demonio». Chiamati a illuminare e a comunicare vita, alla fine si lasciano affascinare da cose che generano solamente oscurità e stanchezza interiore, e che debilitano il dinamismo apostolico. Per tutto ciò mi permetto di insistere: non lasciamoci rubare la gioia dell’evangelizzazione!” (EG 83).
La cattolicità intrinseca alla comunione cristiana, se fedele alla sua origine, è speranza per il mondo in quanto vince l’individualismo, la frammentazione e la divisione dilagante a tutti i livelli. La nostra forza non è il proselitismo ma l’attrattiva della testimonianza dell’amore di Cristo.
“Se pensiamo che le cose non cambieranno, ricordiamo che Gesù Cristo ha trionfato sul peccato e sulla morte ed è ricolmo di potenza. Gesù Cristo vive veramente. Altrimenti, «se Cristo non è risorto, vuota è la nostra predicazione» (1 Cor 15,14). Il Vangelo ci racconta che quando i primi discepoli partirono per predicare, «il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola» (Mc 16,20). Questo accade anche oggi. Siamo invitati a scoprirlo, a viverlo. Cristo risorto e glorioso è la sorgente profonda della nostra speranza, e non ci mancherà il suo aiuto per compiere la missione che Egli ci affida” (EG 275).
Se la paura dilagante ci insegna che la migliore strategia è una violenza più efficace (l’homo homini lupus di Thomas Hobbes), il popolo di Dio vive dentro i cambiamenti del mondo con lo stile di Gesù Cristo: ai cristiani oggi è chiesto di vivere l’Ecce homo di Gesù, che non recrimina, ma accoglie e, pagando di persona, salva, come ci ha ricordato papa Francesco al Convegno Ecclesiale di Firenze.
Ripensare la grammatica dell’umano. Questo imperativo, un dovere che si impone da sé, non per calcoli politici o in seguito a gruppi di pressione, ma grazie all’apparire alla nostra coscienza del bene che tutti vogliamo per la nostra società, per gli uomini, per le nuove generazioni, è il tratto che ci consente di rifare nostro lo stile di Gesù. Il popolo di Dio che papa Francesco incontrerà è un popolo che vuole restare fedele al movimento di incarnazione che Dio ha realizzato donandoci suo Figlio. Alla testimonianza cristiana spetta di mostrare come il Vangelo entra pazientemente nel tempo e nello spazio attraversando tutta la condizione umana fin nelle sue periferie più remote, senza paura di mischiarsi con la zizzania, con quanto è segnato dal male. Il mondo che Gesù chiama “il campo” chiede di essere pensato come il luogo in cui ogni uomo e ogni donna possono rispondere al loro desiderio di felicità, ci ricorda il nostro arcivescovo.